Renzi, un anno dopo

Nell’ultimo, bellissimo, romanzo di Ian McEwan, La ballata di Adam Henry, la protagonista si chiama Fiona Maye e fa il giudice. Lei è chiamata a decidere con grande rapidità su controversie delicatissime spesso inerenti a dilemmi di carattere morale. Tipo: è giusto o non è giusto rispettare la religione di un minorenne – Testimone di Geova – che rifiutando la trasfusione di sangue rischia la vita? Oppure, è giusto separare due gemellini, sacrificando la vita di uno per la vita dell’altro? Fiona Maye ha poche ore per emanare il verdetto. Il suo cervello galoppa. È una vita di corsa. Fino all’ultimo respiro.

La velocità, già. McEwan fa capire senza dirlo che è questo il tratto del tempo nostro, nel quale tutti noi decidiamo cose più o meno importanti in poco tempo, è la condizione della vita privata e di quella pubblica.

Decenni di politica lenta, sonnacchiosa, o anche, nella versione buona, di pensieri lunghi e riunioni interminabili, sono stati sbaraccati. Così che gli ultimi tre anni sembrano dieci: l’evento della settimana scorsa è bruciato, consegnato ai bauli della memoria, per chi ce l’ha, e giornali e talk show e opinion makers devono inventarsi qualcos’altro. La velocità, già: secondo quanto osservato acutamente in uno dei suoi ultimi scritti dal nostro caro Federico Orlando, che ne aveva viste non poche, è esattamente la velocità l’arma con la quale Matteo Renzi “evita” la reazione dell’avversario, perché non gli concede il tempo per la contromossa: lui è già passato ad altro. Si è scansato, come Cassius Clay con Sonny Liston, che era più grosso di lui e brancolava alla ricerca dell’avversario, senza beccarlo mai.

E dunque anche per questo è complicato fare un articolo su questi dodici mesi che ci separano dalla conquista della segreteria del Pd da parte dell’allora sindaco di Firenze. Quel giorno delle primarie dell’8 dicembre 2013, quando sbaragliò Cuperlo, Civati e Pittella, era ieri ma pare molto di più.

La vicenda del premier-segretario verrà raccontata come un susseguirsi di lampi, alcuni efficaci altri meno, un turbinio di mosse, scelte, iniziative, viaggi, frasi, comparsate, attacchi e contrattacchi che stordisce la nostra memoria e alla fine, dopo dodici mesi, lascia intatta la percezione, sebbene la politica muti di continuo e proponga sempre nuovi racconti, che sarà in questa fase molto difficile trovare alternative a Matteo Renzi.

Dodici mesi difficili. Un lungo inverno italiano in cui non si vede sbucare il sole dietro le montagne dei nostri problemi. Renzi ha preso il Pd, e poi il governo (i due piani, come ha notato Civilità Cattolica, appaiono intersecati), nella fase storica del grande scontento europeo e italiano, e il suo reiterato ottimismo (molto raro in un leader della sinistra italiana, sempre così inclini ad evocazioni catastrofiste) solo lievemente appare in grado di correggere l’umor nero degli italiani.

Il punto, oggi, è proprio questo. Istintivamente, gli elettori si affidano ancora al governo Renzi, se non altro perché non c’è di meglio. Ma quando ai sondaggisti rispondono che voterebbero Salvini vogliono probabilmente segnalare al premier che serve un colpo d’ala.

Renzi lavora in un campo devastato com’è oggi quello della politica italiana. Senza più partiti, senza nemmeno più i figli anomali dei partiti. La destra è sghemba, i grillini troppo autoreferenziali, a sinistra si suda senza sogni e solo rabbia. Il parlamento assomiglia a una nave senza nocchiero in balia ora di questo ora di quel vento: le vele si strappano e nella stiva poche risorse. Il suo partito, il Pd, non è ancora vicino alla agognata trasformazione in partito moderno – anzi: post-moderno – che i rottamatori agognavano. Il risultato è che Renzi vince le elezioni nel vuoto, nel deserto dell’offerta politica. Vince pur nella sfiducia montante, con la gente che si ritrae dalla politica. E da questo punto di vista l’immondizia sotto le scale del Campidoglio certo non aiuta.

Le riforme: si è cominciato. Forse si sono sottovalutate le resistenze, come forse si è sottovalutata la forza animalesca di questa crisi economica. Però sì, le riforme sono sul tavolo, alcune sono già realtà. Bisognerebbe mettere un po’ d’ordine – la dannata velocità ha fatto sì che venissero scaraventate in parlamento decine di proposte tutte insieme, di qui l’ingorgo e la paralisi che hanno sparso l’acre odore dell’”annuncite”– ma in fondo il tempo c’è e la determinazione anche. Si è visto con la riforma del senato, per non parlare del Jobs act.

Abbiamo osservato in quelle occasioni un premier duro. Che ha “menato”, come si dice a Roma, e spesso a sinistra. Negli ultimi tempi è apparso però anche un Renzi più duttile, “trattativista”: con sindacati e imprenditori nel caso della positiva storia dell’Ast di Terni; con la sinistra del Pd sul Jobs act. (E c’è da giurare che sarà così nel big match del Quirinale).

Già, pensare all’anno trascorso rimanda inevitabilmente a immaginare il futuro. Renzi ha sempre di fronte a sè un bivio. Lungo la prima strada, la sensazione che molti hanno di una sua “solitudine” si dirada e lui riesce a stabilire col popolo (o ri-stabilire) una “connessione sentimentale” più forte. Magari costruendo le basi di una nuova Casa democratica – una “Casa”, non l’ennesima “Cosa” –, un partito che “poggi” sul Pd ma di fatto ne trascenda i confini attuali, un Partito democratico non più “a vocazione” ma effettivamente maggioritario, essendo chiaro che se la sinistra non dovesse farcela nemmeno stavolta ben difficilmente conoscerà altre prove d’appello. È per questo che molti “vivono” Renzi come l’ultima spiaggia.

Ma nessuno può ragionevolmente escludere – ecco la seconda strada – che il giovane “segretario fiorentino”, come lo chiamò Il Foglio, venga sconfitto da una Grande armée destrorsa e, questa sì, genuinamente populista. Da una risacca più che moderata, da un’onda anomala fomentata e diretta da chissà quale personaggio, Salvini o qualcun altro.  O che cadrà più semplicemente per i suoi stessi errori.

Le incognite sono tante, e la strada di Matteo Renzi non è dunque segnata. Come scrive Simone de Beauvoir, in un bellissimo e un po’ dimenticato romanzo di tanti anni fa dal titolo casualmente renziano – I Mandarini: «Quanto a quello che accadrà più tardi, in fondo a questa lunga preistoria, dobbiamo confessarci di non saperne niente. L’avvenire non è sicuro: né quello prossimo né quello più lontano».